Il viaggio volge al termine. E come ogni volta ho la sensazione che tutto è corso così troppo in fretta. Le immagini di questi luoghi, di questa gente, dei tanti bambini, si sovrappongono, si mescolano.
Come in un caleidoscopio di colori, di forme. Abbiamo coperto tanti chilometri.
Abbiamo parlato tanto. Con loro, tra noi. Sono stati giorni di un’intensità rara, tra emozioni e sentimenti. Negli occhi che incontravi, nelle mani che stringevi.
Quelle piccole mani che ci accompagnavano nelle loro case. Quelle umili case dove all’interno trovavamo allestite per noi tavole piene di ogni cosa. Per dimostrarci quell’affetto, quella riconoscenza. La commozione era in noi grande, come era nelle lacrime dei genitori di questi bambini, nei loro stretti abbracci. Bastavano pochi minuti, alcuni brevi momenti, sufficienti per sentire quello che volevano dirci, senza bisogno di parole, senza bisogno di nulla.
Ma rimanevano due giorni, forse quelli che personalmente aspettavo di più. Lasciavamo le case ed entravamo ora negli orfanotrofi.
Lì non trovavamo tavole imbandite.
Non l’abbraccio delle mamme e dei papà.
Non il calore di una stanza. Al loro posto il gelo di una caserma, l’attesa di un addetto, le regole ben scritte su una bacheca.
Qui trovavamo bambini disgraziati nella disgrazia. Quella di aver perso i genitori, più frequentemente di essere stati da loro abbandonati. E in più quella di aver subito le conseguenze della
maledetta nube di Chernobyl.
Qui troviamo il bimbo che
Giorgio porta da sé da qualche anno.
Ha ormai dodici anni Vladislav. Forse dodici, ma non se ne ha certezza. Non vi sono documenti certi, non si sa quindi la data di nascita.
E nemmeno il luogo.
Vlad ricorda di un viaggio in treno. Un bel viaggio con i genitori. Chissà cosa pensava
Vlad nel bel mentre gli scorrevano al finestrino le immagini di questi bei paesaggi. Magari sognava una nuova casa, più grande, più bella.
Nuovi compagni con i quali giocare. Per certo pensava a cose migliori di quelle che stava lasciando.
Ma Vlad sbagliava. Era un bambino, non conosceva l’atrocità dei grandi, la cattiveria degli adulti.
Anche quella, a volte, di mamma e papà. Quella che lo portava a guardarsi attorno, a cercare con gli occhi sgranati, impauriti, quella mamma e quel papà che lo avevano lasciato, abbandonato sul binario di una qualunque stazione ferroviaria. Da quel giorno
Vlad vive in orfanotrofio. E come lui tanti altri bambini.
Figli dell’assurdo.
Come lui anche
Ludmilla, la sua amica del cuore. Anche lei viene in
Val Trebbia ormai da qualche anno, come anche questa prossima estate.
Raggiungiamo
Begomel, 100 km. a nord di
Minsk, sede del primo
orfanotrofio. E’ lì che sta ora
Vlad. Prima era affidato all’istituto che raggiungeremo appena dopo, a
Vitebek. Ci accoglie la direttrice, una signora sui quarantacinque anni, dai modi gentili, dal fare graziato. Parla discretamente l’italiano, capisce e si fa capire. Ci porta in visita alla struttura. Notiamo recenti lavori apportati ai bagni, ad alcune aule e anche alle camere dentro le quali dormono sei, sette, otto bambini. L’idea che da è che viva il suo lavoro con quella vocazione necessaria per certe professioni. Insomma, una buona impressione.
Ci parla di piccoli investimenti necessari, tra i quali l’acquisto di 5 banchi lavoro per il laboratorio di falegnameria.
Annibale incrocia lo sguardo di
Giorgio e il cenno è di consenso, l’impegno verrà sostenuto dall’associazione.
Stiamo per riportarci al pulmino, un nugolo di bambini e ragazzi ci corre incontro. Uno grande più di me mi si fa vicino e mi dice che gli sono proprio simpatico. Dice che mi vuole parlare. Mi tiene la mano e si fa piacione.
"
Mi chiamo Marc – mi dice –
e tu come ti chiami?" Roberto, gli rispondo. Mi sembra di intuire qualcosa. Alla fine ci facciamo un po’ da parte e mi dice se gli posso fare la ricarica del cellulare. Gli dico che sentirò la direttrice e poi, se me lo consentirà, glie la farò. Un “
nooooo” prolungato una ventina di secondi è la risposta di
Marc. Lo sapevo. Con la direttrice già avevamo parlato di quanto trovasse fuori luogo il cellulare in mano a questi bambini e ragazzi. Altre priorità ci sono.
Concordo pienamente.
Marc se ne va, forse imbronciato, forse no.
Salutandoci il suo abbraccio è forte e stretto.
Forse imbronciato non è. E’ più facile dire di si ai figli, ma servono anche dei no.
Marc è stato per un momento come un figlio, si è rivolto a me, ha chiesto a me, come avrebbe chiesto al padre. Che però non ha. Mi saluta con la mano, sorride, mi fa segno a dopo. Si, perché torneremo qui, tra qualche ora. Abbiamo con noi
Vlad, la direttrice ci ha permesso di tenerlo con noi. Per la gioia sua e di
Giorgio.
Un’altra ora e siamo a
Vitebek. Qui un direttore dall’aspetto burbero, baffi e faccione, tipica da guardia di confine bulgaro ci accoglie, si fa per dire, nel suo ufficio. Una buona ora per verificare permessi e carte. Resisto solo poco più di venti minuti, poi vince la mia impazienza alla burocrazia
bielorussa.
Esco ed incontro
Ludmilla. Anzi è
Vlad che mi porta da lei, me la fa conoscere. Il grande sorriso denuncia tutta la sua simpatia.
Mi prende per mano e quasi non mi lascia più. Scendiamo in cortile, gioco a palla con loro. Corriamo, ridiamo, scherziamo. Mi diverto anch’io.
E’ pomeriggio inoltrato, torniamo.
Lasciamo
Vlad al suo
orfanotrofio, a
Begomel.
Marc era lì ad aspettarmi. Un ultimo saluto anche per lui.
Un abbraccio, in gola un nodo. Siamo di ritorno, domani lasceremo questo paese, rientreremo in Italia.
Ogni partenza si lascia qualcosa, ogni ritorno si porta qualcosa. Domani sarò di nuovo a casa. Domani da casa penserò a loro. A tutti loro, a questi fanciulli ai quali è stata negata la gioia di essere bambini.
Penserò e li ringrazierò per il bene che hanno dentro, un bene che non è stato corrisposto da un destino disgraziato.
Li ringrazierò, questi bambini, per il sorriso che hanno, nonostante tutto, per quello che sono, i bambini di Chernoby.
©Roberto Rossi Rossi