lunedì 25 novembre 2024

Prima tappa Bamako

la capitale del Mali

Prima tappa Bamako
L’arrivo a Bamako è un deja vù, solita marea di un umanità in perenne agguato. L’ambita preda bianca non ha scampo, scende le scale dell’aereo rassegnato, non potrà opporsi, diventerà ostaggio. E si prepara al sequestro, sventolando bandiera bianca. La marea arriva e travolge tutto e tutti. È la devastazione della psiche, uno stordimento totale. E gioca contro anche la stanchezza.
Un viaggio, questa volta, lungo circa 12 ore. Milano-Parigi, poi Parigi-Bamako, la capitale del Mali. Uno scalo dopo poco più di 90 minuti di volo, un’attesa di circa 3 ore per salire sul Boeing dell’Air France che ci porta a destinazione. Seguono le solite pratiche doganali, con compilazione di moduli e presentazione dei documenti, poi ritiro dei bagagli che, magicamente, sono già contesi da decine di falchi neri.
Tutto questo ancor prima, quasi, di capire se i bagagli sono i tuoi, se ci sono tutti, e ancor prima di aver messo a fuoco dove ti trovi, dove sei diretto, come, quando e perché. Quel tentativo di riprendere un minimo di lucidità è vanificato dall’assalto fulmineo che i tuoi aggressori hanno pianificato. E allora ti devi sottoporre a quella tecnica già praticata, consistente in un isolamento mentale di pochi istanti che permettono di effettuare 3 lunghi, profondi respiri, ossigenare così il sangue, per quella carica di energia e di minima lucidità, indispensabile alla trattativa con i tuoi sequestratori.
Sono almeno una dozzina, alcuni si preoccupano del cambio valuta con le banconote già in mano, altri di accompagnarti a destinazione, altri ancora di darti l’alloggio, altri di farti da guida per i giorni a venire, di procurarti un auto, schede telefoniche, oppure artigianato, cibo, fumo e anche donne.
Tuttavia noi potevamo stare tranquilli, forti del fatto che dal nostro hotel erano venuti a prenderci per accompagnarci a destinazione. Bastava così dire loro “pa problem, nous avons dejà la guide”. E allora testa alta, a cercare di superare la muraglia di neri maliani che ci circondava, per individuare quel cartello che riportasse la scritta “mr. Rossi” e uscire definitivamente dall’incubo.
Ma l’Africa è terra di mille sorprese, più o meno carine... Cosicché scopriremo che il driver del nostro hotel aveva sbagliato giorno, e che quell’agognato cartello lo aveva certamente sventolato, ma, ahinoi, la sera prima. Sconfitti ed esausti, ci pieghiamo alla volontà dei nostri predatori, e cederemo alle loro richieste. Cambiamo così un po’ di euro in cfa (leggasi safà), la valuta locale, compreremo un tot di schede telefoniche Orange, dissequestreremo le nostre valigie, dando la prima delle tante mance che verranno a chi se ne era impadronito, contratteremo per il trasfert in albergo con il più energico dei driver, il quale ci pigierà dentro un’improbabile Peugeot, forse 504.
E, inghiottiti dai sedili avvolgenti in quanto sfondati, e sommersi dai nostri bagagli che ci opprimono e ci sovrastano, decidiamo di non volerne più sapere nulla, che quell’uomo può fare di noi ciò che vuole. E così, sconfitti ed annientati, ci consegnamo a lui, per sempre vinti fisicamente e psicologicamente.
Ma non ne approfitterà, ci porterà all’Hotel Tamanà, la nostra prima tappa, lo liquideremo con il pattuito e, sorridente e divertito, scaricherà i nostri bagagli e li lascerà nella hall.
Intanto noi stiamo lentamente prendendo coscienza, di lì a poco inizieremo a capire il come, il quando, il perché!

Bamako, il prezzo dello sviluppo

Non è una città, non è un villaggio. Il caos è devastante, come da tipica grande città africana. Lo smog è indescrivibile, come sopra. Bamako è la capitale di uno dei più grandi paesi del continente nero. È laddove si concentrano le sedi delle istituzioni, delle ONG, delle società di import export.
Bamako è il fumante scoppiettante motore del Mali, il centro nevralgico degli affari, dove si decide, nel bene e nel male, la sorte di quasi 11 milioni di persone. Tuttavia Bamako è rimasta, per ampi tratti, quell’originario villaggio di pescatori bozo che era un tempo. Incapace di crescere, di strutturarsi, di rappresentarsi “capitale”, rimane oggi un groviglio di strade devastate, sterrate e sconnesse, ad unire i vari quartieri di una città che ha pagato caro il prezzo dello sviluppo.
Divisa a metà dal corso del grande Niger, il fiume che attraversa gran parte del Mali portando con sé le sue marroni acque infette, Bamako è un agglomerato di tante baracche e poche case, dove vive una popolazione di circa 1 milione e 300mila persone, tra commercianti (tantissimi), pseudoguide turistiche (che spuntano come funghi ad ogni angolo di ogni strada), artigiani (che propongono oggetti tra i più belli della tradizione africana), poi taxisti con auto o mobylette (motorini), autisti di pulmini (pubblici e privati), e poi donne, che sfilano rette come modelle, ma solo per portare sulla testa, con incredibile equilibrio, ogni ben di dio, in architetture alte più di loro.
Infine bambini, tanti bambini, alcuni che vagano in gruppo, altri a terra seduti o sdraiati, altri che accompagnano la mamma o la nonna cieca o storpia chiedendo una moneta o un cadeau.
Questa è Bamako, e tant’altro. Sarà subito la prima mattina, e alla buonora, che faremo conoscenza con Hamoyè Traorè, quello che ci farà da faro, la nostra guida, il nostro angelo, per tutto il nostro soggiorno maliano. Hamoyè è un ragazzo trentenne che vive a Bandiagara, il centro dei Pays Dogon, la nostra meta. È il driver di Fulvio e degli amici di Ali 2000, ogni qualvolta scendono qui per controllare i lavori dei pozzi d’acqua, per verificare l’avanzamento dei lavori, per sondare quelle zone che hanno maggiore necessità di acqua.
Ha portato con sé, questa mattina, il suo compagno d’infanzia, Amadou (uno dei tanti Amadou che conosceremo), che da Bandiagara si è spostato in capitale per studiare, dove a breve conseguirà un diploma. Amadou ci farà da guida in questi giorni di Bamako, portandoci in visita al Musèe National interessantissimo per l’ampia collezione di maschere e statue, tessuti e reperti archeologici, oltre ad una bella riproduzione della Moschea di Djennè. Solo la sorveglianza appare un po’ troppo rigida, soprattutto nel padiglione dei bogolan, stupendi tessuti dipinti secondo una complicatissima tecnica fatta di tanti piccoli nodi.
Poi andremo al Grand Marchè, dove migliaia di banchi espongono ogni mercanzia, invadendo una bella fetta di città, trasformando le vie in un’immensa delirante giostra di colori e di odori. E la visita diventa una via crucis, tutti ti chiamano, ti offrono, ti chiedono, camminandoti al fianco per tutto il tempo, in un crudele gioco a chi cede per primo, se loro con i tuoi “s’il vous plait” (per favore), e “fishez-moi la paix” (mi lasci in pace), o tu quando ti accorgi che non demordono, che rimarranno lì, attaccati come un tatoo sul braccio, francobollati. E la partita è quasi sempre persa, il risultato mai in discussione, alla fine 3 a 0 per loro e ti riempirai le tasche di ogni cosa, svuotandole di safà.
Amadou ci vedrà un po’ frastornati e per riprenderci ci porterà al Point G. Lassù è l’ideale per rilassarsi un po’, per recuperare le energie andate sgretolate. Point G è il punto più alto a ridosso della città, una scarpata dalla quale si apre una bella veduta sul Niger e su Bamako, questa baracca di capitale.
Staremo seduti lì qualche minuto, immersi nel verde africano, sotto un cielo azzurro che diventerà là, più in fondo, quasi rosso, o arancio intenso, per poi farsi, in prossimità dell’orizzonte, più cupo, più violaceo.
Da qui, in alto, tutti i colori del nero, quelli della pace, della serenità, la sotto quelli del caos, dello smog, della frenesia, ma anche i colori della vita, delle mani che lavorano, che si stringono, per la voglia di crederci, di farcela.
È l’Africa, l’altra parte di te, che questa volta si chiama Mali.

©Roberto Roby Rossi

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