E’ l’ora di pranzo quando ci uniamo al gruppo di volontari con i quali divideremo questa esperienza. Oggi sono al
Bomas of Kenya, un centro culturale che propone musiche e danze tribali. Hanno portato lì i bambini, che così incontriamo e vediamo, anche loro, per la prima volta. Sono 32 e vivono all’
Alice Village, la nuova struttura che
Twins International, l’organizzazione umanitaria con la quale sono qui, ha costruito ed inaugurato nel maggio scorso.
Sono 32 bambini orfani, ognuno con una storia diversa, ognuno con la stessa identica storia. Quella che parla di abbandono, di morte, di miseria, di slum. Che parla di disperazione, di solitudine, di vite appese ad un filo. Vengono tutti dalle zone rurali del
Kenya , da dove, a partire dagli anni ’70, la gente partiva per cercare, in città o sulla costa, migliori condizioni di vita. Che ha trovato invece, nella maggior parte dei casi, ancora più povertà, più emarginazione.
La vita fatta di stenti, laddove le zone agricole non consentivano sopravvivenza, si è trasformata per loro in un calvario ancora peggiore.
Fatto di baracche, di lamiere, di elemosina, di malattie, di spazzatura. Quella dentro la quale vivono.
E loro stessi sono spazzatura, così vengono definiti. Vengono dalle zone degli
Altipiani Centrali, ma anche dalle zone al confine con l’
Uganda, quel
Kenya Occidentale terra dei
Masai. Da località come
Kisumu,
Kisii,
Nakuru, ma anche da
Nyeri,
Nanyuchi,
Meru, quest’ultima patria del
Miraa. Si tratta di una pianta sempreverde, le cui foglie e ramoscelli vengono masticati perché attenuano l’istinto della fame, ma nello stesso momento provocano forti stati di allucinazione, poiché il principio è quello dell’
anfetamina. Qui si trova con estrema facilità e costa
da 100 a 300 scellini, qualche euro per una manciata. Da queste zone vengono le famiglie che oggi vivono negli slum, da qui vengono i bambini dell’
Alice Village.
Conosciamo subito
Carol, la più piccola, quella che
Nicolò deciderà di “
adottare” per queste settimane. Dice di avere 7 anni, ma
ne avrà 4 o 5 al massimo. E’ scaltra, vispa, si avvicina, è dolce, timida ma non troppo. La timidezza in questi bambini è il tratto caratteriale più evidente, più immediato. Sono introversi, chiusi, timorosi. Si, forse più che timidi sono intimoriti.
Da storie dure, forti, che hanno dovuto subire già dalla nascita. Si notano per primi anche
Jeoffrey, il più grande con i suoi 15 anni, e
Brian, che ne ha 14. Sono già grandi, molto di più della loro età. In certe situazioni si cresce molto in fretta.
Troppo. Non hanno conosciuto la spensieratezza dei bambini, nemmeno l’affetto, quello che fortifica lo spirito, che rafforza l’animo. La loro forza l’hanno costruita nella disperazione, nella lotta quotidiana con l’ingiustizia, con il menefreghismo, con la fame. E’ una forza debole, una forza precaria.
Quella che però li ha salvati dalla colla, dallo straccio imbevuto nell’alcool, nel petrolio.
Quella forza che tanti non hanno avuto. Quella forza che è mancata a chi, già a sei anni, li vedi per le strade,
con gli occhi venati, coperti di stracci,
rovistare nell’immondizia. Quella forza loro, i bambini e i ragazzi dell’
Alice Village, l’hanno trovata. E anche un po’ più di fortuna, hanno trovato, lungo la loro strada. Quella fortuna che non hanno trovato i “
children street”, i
ragazzi di strada.
Che a vent’anni con il fegato spappolato, il cervello fuso, vagano per la città. Senza una meta, senza un obiettivo, senza un futuro. E senza un passato. Non sono nulla, non hanno nulla.
Solo spazzatura, come quella dove rovistano per cercare il cibo o un cencio, migliore di quello che indossano.
Anche questi 32 bambini hanno rischiato grosso. Erano ad un passo dalla strada, dalla colla, dalla fine. E sono solo bambini. Ora tocca anche a loro, però. Qui, nella struttura dove rimarrò fino a metà agosto, imparerò a conoscerli, ad apprezzarli per la loro disciplina, la loro delicatezza, la dolcezza. E li vivrò ogni giorno, per scambiarci l’affetto che abbiamo voglia di dare e di ricevere. Così, naturalmente, come fossero tanti figli, tutti una famiglia. Unita, serena, viva. Perché è questo che hanno bisogno.
Di sentirsi vivi. E amati.
Le stesse cose di qui abbiamo bisogno noi, tutti. E qui rivedo
Nicolò come l’avevo lasciato in
Karamoja, un anno prima. Allungare le braccia ed aprirle a queste creature.
A queste piccole grandi donne.
A questi piccoli grandi uomini. Nei suoi occhi ritorna quella luce che parla di amore, di cuore. Quello che da qualche minuto batte forte. Forte come avevo già visto. Verso sera raggiungeremo l’
Alice Village.
Saluteremo i bambini che se ne andranno a dormire subito. Stanchi della bella giornata. Nei prossimi giorni conosceremo luci ed ombre di questa nuova struttura. E in mezzo a questo
chiaroscuro proseguiremo il nostro percorso.
Un pezzo di cammino della nostra vita dedicato a ciò che di più grande e di più bello c’è al mondo:
i bambini.
Bomas of Kenya
A pochi chilometri da
Nairobi, presso l’ingresso principale del
Nairobi National Park, il
Bomas
è un centro culturale dentro il quale vengono messi in scena spettacoli
di canti e danze tribali. Il corpo di ballo protagonista di queste
rappresentazioni è composto da artisti di grande talento.
Lo
spettacolo ha una durata di un paio d’ore, che però trascorrono
velocemente, dato il ritmo e il coinvolgimento del pubblico. Sono 16 le
scene, che riguardano i diversi gruppi tribali, con musiche swahili e taarab, altre di chiara derivazione araba, poi danze dei guerrieri kalenjin, cerimonie di circoncisione dei Kikuyu ed altre. Un’attrazione“da turista” che può valere la pena non perdere, ma non più di una volta.
Alice Village, una grande famiglia
E’ una struttura inaugurata nel maggio scorso. E’ la casa di 32 bambini, 16 femmine e 16 maschi. La
partnership tra
Twins International e
Grapes yards fa partire questo progetto. La gestione delle risorse umane è curata dalla prima che ha sede a
Milano, mentre la seconda è un’associazione locale, diretta da
Edmond Opondo Oloo.
Lui, con la moglie, vive dentro
Alice Village, insieme ai loro 3 bambini. Il centro si sviluppa su diversi nuclei, per le diverse destinazioni. Oltre la casa di famiglia
Opondo, che annette la sala dove mangiamo i bambini, la cucina ed un paio di stanzette uso ufficio, il villaggio comprende due separate costruzioni con 4 grandi camere ognuna. Qui dormono, in 4 per stanza, da una parte le femmine, dall’altra i maschi.
Un altro nucleo ospita, da una parte la sala polifunzionale con Tv, per giochi, incontri, riunioni e feste, mentre dall’altra le camere per il personale. Sono in una quindicina loro, quelli dello staff.
Conosceremo
Robert,
il nostro
driver, (c
on qualche storia anche lui da
raccontare),
George il giardiniere, poi
Aliscia,
Bitty,
Pam ed altre. Un po’ più in là,
a qualche decina di metri, le stanze per i 10 volontari. Ancora
oltre, ma a metà lavori, è l’ambiente che ospiterà gli uffici
dai quali
Edmond dirigerà l’attività. Inoltre la
lavanderia ed uno spazio verde molto ampio, quanto trascurato.
Un’area è dedicata a campo di calcio
(dove Nicolò monterà
le porte) e
campo di volley, mezze pietraie. Le strade di
collegamento tra le varie strutture sono una vera e propria insidia,
con sassi grossi e aguzzi che sembrano in agguato a colpire le
caviglie di chi le cammina.
L’acqua c’è, ma non sempre è
calda.
Anche perché la luce che alimenta il sistema di
riscaldamento delle due docce (per dieci volontari), molto
spesso se ne va. Quindi candele, che può essere carino, ma acqua
fredda, che è senz’altro meno carino, in particolare con le
temperature di questi tempi. Tuttavia è previsto l’allestimento di
un generatore, che pare sia solo da installare. Ma per i tempi,
qui non c’è fretta. L’ansia dell’orario, del ritardo, del
tempo, qui non è nota. Tutti lavorano, ma a turno, prima uno, poi
l’altro.
“Pole pole”, piano piano. Sono ritmi a noi
sconosciuti, uno stile da noi impraticato, che di certo non prevede
l’affanno con il quale noi ci confrontiamo ogni giorno, a casa
nostra. A questi problemi loro rispondono “hakuna matata”,
nessun problema. Poi vedremo, con un po’ di tempo (ma neanche
tanto) che qualche problema, qui all’Alice Village,
invece c’è.
Robert
il driver,
Elisha
il factotum,
George
il giardiniere, vivono qui, all’
Alice
Village. Insieme a loro, in una
struttura a fianco, anche
Pam
e
Beatrice,
le
house mother,
vivono qui. Si occupano dei bambini, della loro igiene, seguono i
compiti, cucinano, tengono in ordine le camere. Una grande famiglia
quella che ruota attorno a
Edmond
Opondo Oloo.
Alice Villlage è una struttura che
deve ancora crescere tanto. Nell’organizzazione e, comunque, in
generale, perché abbiamo verificato lacune importanti, date forse
dalla giovane età della struttura. L’augurio è che queste lacune
vengano colmate al più presto, perché
Alice
Village possa rappresentare davvero
una grande opportunità per tutti, quella casa che questi bambini non
hanno mai avuto, quella famiglia che non hanno mai conosciuto. “
Vengo
dalle zone più povere del Kenya –
racconta Robert –
quelle al
confine con l’Uganda”.
Là
ho lasciato la mia famiglia, mia moglie e i miei 3 figli”.
Robert ha trent’anni ed è il driver di Alice Village, colui che
porta tutti i giorni i bambini a scuola a
Kariobangi
e che li riporta, nel pomeriggio, qui a
Utawala.
Ha una padronanza del pulmino che ha in dotazione davvero
straordinaria. Viaggia su queste strade piene di buche e di insidie
con una facilità disarmante. Nel marasma di
Nairobi,
caotica all’inverosimile, pare vada a passeggio “
ho
fatto 6 anni alla conduzione di un matatu, qui a Nairobi
– prosegue –
e conosco questa
città e il suo traffico come le mie tasche. Il disordine è a
livelli incredibili, lo so, ma io sono cresciuto qui dentro, per me è
la normalità”.
Edmond Opondo Oloo Intervista
al direttore di Alice Village
“Mi chiamo Edmond
Opondo Oloo e ho 36 anni. Ho vissuto in diverse aree del paese, ma
sono nato nella regione di Nyanza. Arrivo a Nairobi nel ’94 e vivo,
per un primo tempo, a Korogocho, prima di arrivare qui a Utawala.
Sono il direttore di Grapes Yard self group e dirigo anche il
centro di Alice Village, cercando di soddisfare i bisogni primari dei
bambini: cibo, educazione, vestiti, igiene personale, cure mediche.
Quando ho fondato Grapes Yard self group nel 1999, ho dato priorità
all’educazione scolastica. Abbiamo iniziato a Korogocho con
l’apertura di una scuola che comprende dalla scuola materna fino
all’ottava, l’ultima prima della scuola superiore.
All’inizio
aveva solo 30 bambini ed è stata riconosciuta dal governo locale. Il
programma di Alice Village, che nasce nel maggio 2008, è stato preso
in considerazione dopo aver conosciuto Diego Masi, presidente di
Twins International, con cui abbiamo avviato una partnership. La casa
nasce per ospitare bambini orfani, oggi ne abbiamo 32, 16 maschi e 16
femmine.
L‘età va dai 6 ai 15 anni. Lo staff è composto da
due house mother, due house assistant, un financial office, due
programme assistant. La mia vita è cambiata perché adesso sono
padre di 32 bambini, oltre agli altri 300 bambini di Graper Yard, che
abitano a Korogocho e che seguo. Ho una mia famiglia, con 3 figli, un
maschio e due femmine.
E’ importante per me non far mancare a
tutti questi figli un legame affettivo, di genitore e garantire loro
una migliore qualità della vita. Questo significa maggiori
responsabilità, rispetto, un obiettivo che mi impegna ogni giorno”.
Robert, il driver
Purtroppo due anni fa gli capita una
disavventura e la racconta con patimento “muoversi
qui è un po’ come essere su una giostra, su un autoscontro, ogni
istante rischi che qualcuno ti venga addosso, anche i pedoni
attraversano sfiorando le auto e i matatu. Non ci sono tante regole,
semafori, precedenze, ci vuole piuttosto tanto occhio, tanta
attenzione”. E’ indubbio,
l’avevamo notato! “Ma quando
cadi nelle mani della polizia, sono guai
– continua Robert – come quando
mi hanno fermato perché superavo sulla destra, occupando parte dello
sterrato, dove camminano anche le persone a piedi”.
Cento volte non ti dicono nulla, dice, ma quando invece ti fermano,
paghi per tutte le altre volte… “Mi
hanno ritirato la patente e multato di 12000 scellini (120 euro) che
però non avevo, quindi mi sono fatto 4 mesi di galera ed una volta
uscito la compagnia per la quale lavoravo non mi ha più assunto”.
Non ha più trovato nessuno che gli desse un matatu da guidare,
si è ritrovato, come tanti altri, senza lavoro, senza casa, senza
nulla. “Prendo poco qui ora,
all’Alice Village – conclude
Robert - però qualcosa mi danno e,
soprattutto, ho un tetto dove dormire”.
©Roberto Roby Rossi