slum di Mathare - storie di nessuno
nelle baracche di Theresa, di Ziipa e di Lane Anwor
Vivono qui, da sempre, o quasi. Hanno vent’anni, o poco più e hanno figli. Nient’altro, il loro avere finisce qui. Quando chiedo a loro la prima cosa che vorrebbero, la risposta è: un’opportunità. Si, perché a questa gente, a questi bambini, a queste donne è stata negata la possibilità di una vita. Non hanno mai conosciuto altro che fame e miseria.
Dan Ogutu, il bishop di Mathare, dice “nessuno può permettersi di mollare, di rassegnarsi, mai, ancor meno in questa situazione, bisogna credere e lottare, noi lo facciamo tutti i giorni, da anni”. Sono persone, quelle come Dan, sorrette da una fede immensa, che hanno accettato questo stato di cose, che vedono questo come un grande disegno che bisogna accettare, un destino che fa parte di quel grande dono che è la vita.
Chi non è sorretto da un credo che può dare significato ad ogni cosa, risulta molto difficile accettare, come normale, questo “lager” dentro il quale vivono milioni di persone. Con una filosofia cristiana ti raccontano che la vita è anche questa. E che non và rinnegata. Se così è, un motivo ci sarà, e per tutti arriverà il momento del riscatto, la vita eterna. Questa è la tesi. Non so, non ne sono certo, se però deve arrivare, che arrivi presto. Perché di eterno, per il popolo dello slum, ora c’è solo sofferenza e tribolazione. Mai la pace, sempre a rincorrere. Rincorrere una vita che sanno esiste da qualche parte, che vedono nella Tv, nelle persone che gli sfilano accanto, ben vestite, in ordine. E questa consapevolezza genera speranza, ma anche rabbia.
E’ gente che vive dentro, da sempre, nelle contraddizioni più destabilizzanti. Ti sorridono di un sorriso vero, sincero, ma dentro hanno attese che, giorno dopo giorno, vengono sempre meno. Leggo da qualche parte una considerazione che ipotizza il “ritardo” dell’Africa come l’espressione di una formidabile resistenza culturale ad un modello economico devastante. Quello del mondo occidentale, invitando così ad una seria riflessione sul nostro modello di vita, sui valori della mondializzazione liberale. Mi pare possa reggere questa lettura.
Concordo che l’Africa può essere, paradossalmente (e neanche troppo), il gancio di salvezza del nostro cosiddetto “mondo civile”. Un paese, un popolo che viene in nostro soccorso indicandoci quali sono i veri valori per una vita “giusta”, quei valori che la globalizzazione ha annientato. Quelli che il dio denaro ha represso, sostituendoli con la materia, l’avere, il possesso.
Ebbene si, l’Africa può indicare all’Occidente la strada. Può apportare una visione più armoniosa ed equilibrata del rapporto tra gli esseri umani, e tra gli esseri umani e la natura, facendo leva su un patrimonio culturale immenso. Ma anche sul valore delle tradizioni, frutto di millenni di storia. Patrimonio importante e vitale che, purtroppo, la nostra parte di mondo sta inesorabilmente perdendo.
Nairobi: slum di Mathare - Piccole storie di ordinaria disperazione
Alcune piccole, semplici, brevi storie che abbiamo raccolto, durante la visita allo slum di Mathare. Si traccia il profilo sommario di una condizione sociale abbastanza uniforme, che testimonia la frequente mancanza, all’interno della famiglia, della figura maschile. In alcuni casi perché non è mai esistita, in altri perché alcolizzati e persi chissà dove, per la maggior parte perché stroncati dall’AIDS.
Con Emma e Nicolò siamo entrati nelle loro case, seduti su improbabili divani o sedie, tra pareti di lamiera arrugginita, abbiamo conversato usando la massima discrezione per non urtare la loro già provata sensibilità. Si è immediatamente palesata una certa chiusura, un istintivo disagio, nella chiacchierata.
Le loro parole uscivano appena sussurrate, la testa era spesso tenuta bassa, solo qualcuna si è lasciata in un sorriso. Sono 3 semplici storie, che raccontano tre diverse vite. Tre persone, un unico dramma, quello della povertà, della miseria più estrema. Tre ne abbiamo sentite, potevamo sentirne milioni.
Perché storie come quelle di Theresa, di Lane Anwor, di Ziipa qui, in questa Africa, ce ne sono davvero milioni.
Theresa
“Sono la nonna di Bill, questa piccola creatura – dice Theresa – lui ha nove anni, è uno dei miei tanti nipotini”. Dice di essere vedova ormai da quasi vent’anni. “Mio marito – racconta – è morto giovane, era malato, poteva essere curato e guarito, ma invece è morto.” Non ci dice di che cosa, spesso non vogliono raccontare che è mancato a causa dell’AIDS. L’abitazione è buia, un divano con qualche sedia ed un tavolo al centro, molto a ridosso delle sedute, pare messo lì per l’occasione. Continua Theresa “la madre di Bill è mia figlia, anche lei è morta – sospira profondo e riprende – ed è morto anche mio genero, lui era il loro primo figlio…”.
Fa fatica, cerca di dire cose che Bill, lì seduto al suo fianco, possano non ferirlo. Riprende “non aveva nessuno con cui stare” poi si corregge, Bill potrebbe accusare il colpo, quindi aggiunge “ma erano in tanti a volerlo con loro, amici e parenti, solo che Bill ha voluto stare con la sua nonna” e mentre lo dice lo guarda come per chiedere il suo consenso. Stanno lì, insieme a loro anche i due figli di Theresa, i più piccoli dei suoi 7 figli. Sono in 4 lì dentro, pochi rispetto la media. Salutiamo Theresa, la lasciamo che tiene in braccio Bill, poi arriveranno i figli.
Tre generazioni che vivono qui, insieme, in tre metri quadri.
Ziipa
Entriamo dentro ad una stanza buia, quasi da non vederci in faccia. “Ho 28 anni – dice Ziipa – e vivo qui con i miei 5 figli”. Lei è una bella ragazza dai capelli raccolti in tante trecce, la poca luce non nasconde però i tanti anni in più che porta sul volto, segni di vita difficile, sofferta.
“Nel marzo di quest’anno ho perso mio marito, morto di AIDS – prosegue Ziipa – e mio figlio, il più grande, si è trovato ad essere l’uomo di casa, mi aiuta e mi sostiene in tutto, per quel che può”. Già, per quel che può, perché Ash è solo un ragazzo di 15 anni.
Ziipa lo ha avuto che ne aveva 13, potrebbero essere più fratello e sorella che non madre e figlio. Gli chiediamo cosa fa per vivere “ho un piccolo banchetto di frutta qui vicino – ci dice – ma a volte non ho nulla da vendere”.
Sono così questi banchetti degli slum, un asse di legno poggiato sopra due bidoni di kerosene o altro, che espongono qualche patata, pochi pomodori o zucchine, in altri casi pesciolini secchi o qualcosa di fritto.
Salutiamo Ziipa, ha la testa bassa e non la alza, gli prendo la mano e gliela stringo.
Lane Anwor
Batto la testa entrando nella sua baracca, lei ride. Un po’ mi fa male, ma lo rifarei volutamente per strapparle un sorriso. Ancora non ne avevo incontrati di sorrisi, mi accorgo che ne avevo bisogno. Sono visite brevi, ma di un’intensità rara.
Poche volte mi sono trovato senza parole, senza avere la forza e la capacità di dialogare, di chiedere, di parlare. Qui è così, mi capita di non riuscire a trovare il modo per sbloccare una situazione di forte disagio. Mi sembro, a volte, inopportuno, mi chiedo se sto facendo qualcosa che può arrecare maggiore sofferenza a chi mi accoglie qua dentro. Mi viene spesso in aiuto Emma, altre volte Nicolò.
Ora la risata per la mia testata è stata salutare (non per me, il graffio sulla testa fa male…), quindi la chiacchierata viene più spontanea. Lane ha 35 anni, ci racconta dei suoi 4 figli, due dei quali sono lì, di fianco a lei, Lisa di 9 anni e Marianne di 11. Poi ci dice del marito che se ne è andato dallo slum qualche anno fa e di cui non sa più nulla.
“Ora i miei figli mi aiutano – dice - vanno in città, anche il più piccolo di 8 anni, per trovare qualcosa da fare”. Lane aiuta una signora che lava i panni per altri e guadagna così qualcosa anche lei. “Spero un giorno – conclude guardandomi negli occhi – di vedere i miei ragazzi fuori di qui, perché sono bravi, non meritano questa vita”.
Nessuno merita questa vita, gli dice Emma, mentre a Lane gli si lucidano gli occhi.
Sarà così, la rincuora Nicolò, un giorno tutto questo non ci sarà più.
©Roberto Rossi Rossi
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